COME IN UNA BOLLA - La distanza delle relazioni ai tempi del Coronavirus

saturday 18 april 2020 at 17h28

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C’è un vestito da sposa chiuso nell'armadio cucito su misura, lavato e stirato e che non potrà ancora essere usato. C’è una tavola addobbata a festa che aspetterà i suoi commensali. Ci sono dei piedini di una neonata che aspettano di essere ammirati dai nonni e stretti tra le loro mani. Un padre a casa che aspetta di conoscere suo figlio e riabbracciare la sua compagna, sola in ospedale. C’è una madre che ha salutato per l’ultima volta la propria e che bramerebbe l’abbraccio di suo figlio. Ci sono persone che se ne sono andate e per il quale l’ultimo saluto assieme, raccolti nel dolore, è negato.

Ci siamo tutti fermati, all’interno delle nostre case, per cercare di arrestare la forza e la portata di questo fenomeno che non conoscevamo, che non attendevamo, mentre la vita scorre comunque. Si nasce, si muore, si deve sopravvivere. Per alcuni la domanda è come sopravvivere: ci dobbiamo fermare ma dobbiamo comunque vivere. Non eravamo preparati a tutto questo. In questa pandemia facciamo i conti con un nemico invisibile che inevitabilmente ci ha messo in contatto con il limite umano e con le nostre fragilità. Tutti, senza differenze, siamo stati colpiti. Ci ritroviamo a vivere i momenti dolorosi e i momenti di felicità in isolamento, a condividere tutte le nostre emozioni chiusi nelle nostre case o al massimo trasmesse per telefono o attraverso uno schermo.

Che cosa lega tra di loro questi momenti? È, dal mio punto di vista, la mancanza di condivisione, di poterli vivere assieme. Questo può portare a esasperare maggiormente i vissuti negativi o a sentire le emozioni sia dolorose che piacevoli come anestetizzate, come se da dentro una bollaosservassimo ciò che ci accade.  

Mi sono imbattuta in questi giorni in una delle mie teorie preferite dell’Analisi Transazionale, ovvero la teoria delle carezze. Con il termine “carezza” Berne parlava di unità di riconoscimento, cioè il bisogno di essere visto per quello che si è o si fa e che implica ogni atto che riconosce la presenza dell’altro.

Parte dal presupposto che il comportamento umano è determinato da vari tipi di “fame”, ovvero necessità di base che se non vengono soddisfatti portano alla disorganizzazione della personalità. Il primo bisogno fondamentale è quello di stimoli che si riferisce ai bisogni di base fisiologici e sensoriali e che si esprimono ad esempio nel neonato nel bisogno di essere nutrito, di dormire e di essere toccato. Lo possiamo osservare anche in un essere umano adulto che posto nella condizione di deprivazione sensoriale perde presto il senso della realtà.

Questo bisogno nel neonato poi evolve con la crescita divenendo il bisogno di riconoscimento, quello che Berne chiama FAME DI CAREZZE. Ormai è assodato quanto anche l’interazione tra il bambino e il proprio caregiver è fondamentale per uno sviluppo cognitivo ed emotivo armonico, mentre un’assenza di relazione porta al decadimento organico. Questo bisogno evolve in forme più simboliche lungo lo sviluppo dell’individuo e permane anche in età adulta. Quando gli adulti non vengono rispettati, non si sentono visti, diventano depressi e possono cessare di prendersi cura di sé. Il bisogno di riconoscimento è alla base del sistema motivazionale di ogni persona. Provate a pensare se potreste realizzare ogni vostro desiderio e progetto ma senza poterlo condividere con nessuno al mondo. Nessuno saprebbe quello che vi accade. Quale sensazione provereste? 

Questa teoria quindi ci spiega come il bisogno di stimoli e di riconoscimento è talmente vitale per l’essere umano da essere comparato alla necessità di cibo quando abbiamo fame. L’uomo ha bisogno delle relazioni per evolvere, per crescere, per mentalizzare ciò che gli accade.

Proviamo quindi a pensare a un evento doloroso come la morte di una persona a cui vogliamo bene e non poterci stringere in un abbraccio e spendere quel tempo necessario per raccontare la sua storia e ciò che per noi rappresentava. Immaginiamo quanto possa farci sentire più soli o quanto possiamo sentire di meno il dolore perché è irreale la situazione. Proviamo allo stesso modo a pensare a un evento felice, quanto si impoverisca di senso o di intensità. Immaginiamo cosa voglia dire non poter condividere lo stupore che si prova di fronte a una smorfia di un neonato; proviamo ancora a immaginare a un matrimonio senza le persone che assieme alla coppia celebrano quell’unione. Il bisogno che cela la gioia d’altronde è quella di poterla condividere.

Questo isolamento ha un impatto davvero forte sulle nostre vite poiché se è vero che ci dobbiamo tutti fermare, la vita scorre comunque ed è davvero frustante non poter sperimentare la presenza reale e calda di un altro, che ci guarda senza filtri, ci abbraccia e ci vede o che sorrida con leggerezza assieme a noi. In questo tempo ci abbuffiamo di videochiamate e messaggi ma ci sentiamo realmente nutriti? Ci sentiamo altrettanto a nostro agio? Berne forse leggerebbe questi tipi di interazione come carezze di plastica; sono segni di riconoscimento che fanno bene, ma non scaldano come quelli che ci scambiamo nella presenza.

Ho condiviso queste mie riflessioni perché quando l’unica soluzione a volte è quella di accettare ciò che ci accade, delle parole che comprendano il nostro vissuto ci possono aiutare a resistere e a sentire sollievo. Poiché, alla base di tutto appunto, c’è il bisogno di sentirsi riconosciuti.

 

 

 

Dott.ssa Valentina Tulisso - Iscritta all'Albo degli Psicologi del Friuli Venezia Giulia - n. 1472- P.I. 02745410304